Stephen Bevans LE VIE DELLA MISSIONE CRISTIANA OGGI di (Chicago, USA 16/09/2011
Il missiologo nordamericano della Catholic Theological Union di Chicago, Stephen Bevans, autore diTeologia per la missione oggi (New York 2004), pubblicata in edizione italiana dall’Editrice Queriniana in “Biblioteca di teologica contemporanea” (BTC 148, 2010) ha guidato un seminario di studio presso l’accogliente Casa Natale di san Daniele Comboni a Limone sul Garda (Brescia), promosso dalla rivista Ad Gentes della Conferenza degli Istituti esclusivamente Missionari presenti in Italia (CIMI), sul tema “Lo Spirito Santo e la missione oggi”. Proponiamo il testo della relazione di Bevans.
Il giornalista statunitense John Allen scrive che «le future storie del cristianesimo probabilmente presenteranno la fine del ventesimo secolo come l’“era dell’esplosione pentecostale”».
È risaputo che il pentecostalismo è il movimento religioso che cresce più velocemente nel mondo d’oggi. È cresciuto da meno del 6% negli anni Settanta del Novecento a circa il 20% nel primo decennio del XXI secolo. Secondo il documento scritto dai teologi asiatici nel 1997 sullo Spirito Santo, il movimento carismatico nelle Filippine coinvolge circa il 30% della popolazione, cioè 51 milioni di persone. E questo ormai quindici anni fa! Il pentecostale malaysiano-americano Amos Yong ha descritto la fioritura del pentecostalismo in Guatemala, Cile, Corea, India, Zimbabwe e Sudafrica.
Allen fornisce molte plausibili ragioni sociologiche di questa crescita fenomenale, ma afferma che, dal punto di vista dei pentecostali e dei carismatici, la ragione è lo Spirito Santo. Mi sembra chiaro che la vitalità tanto evidente nelle comunità pentecostali e carismatiche è una prova dell’opera dello Spirito. Queste comunità testimoniano ciò che la fede in Cristo può essere: sono gioiose, offrono una buona assistenza pastorale, leggono e studiano la Bibbia insieme, manifestano un senso di responsabilizzazione (empowerment) del laicato e una crescita del ruolo delle donne nella chiesa. In India un sondaggio sul perché le persone sono attratte dalle chiese pentecostali ha concluso che esse vogliono integrarsi in una comunità calda e accogliente e desiderano una maggiore cura pastorale per sostenere la loro vita spirituale. Lo Spirito opera per fare della comunità ecclesiale un testimone della potenza del vangelo. Molto spesso è la forza di attrazione di questa testimonianza a persuadere i cattolici a entrare nelle chiese pentecostali, come è stato notato dalla Conferenza di Aparecida (Brasile) nel 2007. I cattolici farebbero bene a unirsi all’opera dello Spirito Santo e a far sì che le loro comunità siano vivaci quanto le pentecostali.
Allen inizia il suo rapporto sul pentecostalismo con un ritratto di Oscar Osorio, honduregno, predicatore laico cattolico carismatico e televangelista. Osorio era originariamente un avventista del Settimo giorno, ma si è sposato con una cattolica e in seguito ha partecipato a un ritiro che lo ha portato a una conversione profonda. Oggi è un ardente evangelizzatore. Predicare il vangelo, dice, è «una cosa che noi laici dobbiamo fare ... Non possiamo starcene seduti ad aspettare di essere guidati. Dobbiamo volerlo, sentirlo, bruciare dalla voglia di evangelizzare».
Una dedizione così appassionata all’annuncio del vangelo è rara al di fuori dei circoli pentecostali o evangelici, eppure è stata invocata da Paolo VI, Giovanni Paolo II e Benedetto XVI; quest’ultimo ha istituito il Pontificio consiglio per la promozione della nuova evangelizzazione. Tutti questi papi invocano la Potenza dello Spirito, il Solo che rende i cristiani capaci di proclamare il vangelo. Anche la Conferenza di Aparecida ha affermato che quando una persona è toccata dallo Spirito, è spinta ad annunciare la propria fede ad altri: «La vita nello Spirito non ci rinchiude in un’intimità raccolta, bensì ci rende persone generose e creative, felici di annunciare il vangelo e svolgere il servizio missionario».
Liturgia, preghiera e contemplazione non vengono considerate immediatamente elementi della missione. Se ne riconosce certamente l’importanza, ma sono viste più come azioni per il bene della Chiesa che come azioni della Chiesa verso l’esterno. Tuttavia, da parecchi anni il pensiero missionologico le vede come contributi preziosi all’azione missionaria in quanto tale, e la riflessione su questi temi costituisce l’avanguardia del pensiero missionologico. Liturgia, preghiera e contemplazione sono atti missionari, modi per unirsi all’opera dello Spirito.
Diversi anni fa un missionario di Papua Nuova Guinea mi disse che è quasi impossibile svolgere un’azione missionaria efficace in quel paese senza essere in qualche modo carismatici; per molti versi questo è vero anche in molte altre parti dell’Asia (per es. nelle Filippine, in Corea), nell’America Latina e in Africa. Recentemente ho dettato un ritiro per missionari verbiti che operano nei Caraibi e la loro testimonianza era molto simile. La gente in questi paesi vuole liturgie vivaci, belle, gioiose, dinamiche, piene di Spirito e di preghiere. Vogliono meno preghiere formali e prestabilite e più invocazioni spontanee. Forse con queste richieste lo Spirito Santo ci dice che abbiamo bisogno di essere più vivi quando celebriamo la liturgia; che la nostra musica deve essere più adeguata alle culture locali e deve avere una maggiore base biblica; che le nostre preghiere devono essere più sincere e più libere.
I teologi della FABC [Federazione asiatica delle Conferenze episcopali] elencano molti «segni della presenza dello Spirito» nelle comunità cristiane di base della Chiesa asiatica di oggi, e alcuni di essi riflettono l’importanza della liturgia, della preghiera e della contemplazione. In primo luogo c’è «come una sete di preghiera, sia personale che comunitaria», e i fedeli hanno un senso della contemplazione che li guida «ad atti concreti di servizio all’umanità». Secondariamente, c’è «un’autentica fame della parola di Dio». La gente dell’Asia vuole ascoltare la parola di Dio, rifletterci sopra personalmente e in comunità, e «applicarla alla propria vita». In terzo luogo, i cristiani asiatici hanno un amore per l’eucaristia che porta alla piena partecipazione di tutti i membri della comunità. E «quando il pane eucaristico è condiviso, essi si sentono rafforzati nella solidarietà, nella loro attenzione e cura reciproca».
Paolo parla dello Spirito Santo come della fonte della nostra preghiera, attraverso la quale gridiamo nei nostri cuori «Abba» (Rom 8,15). I cristiani devono lasciare che lo Spirito li guidi a pregare per il mondo. La preghiera non è solo per se stessi, ma anche e forse soprattutto per i bisogni degli altri. Noi preghiamo per vari popoli nel mondo, per la chiesa in tutta la terra, per la pace globale, per la fine della povertà e della discriminazione, per la riconciliazione, per uno spirito di dialogo tra i popoli, per i cristiani perseguitati. Preghiamo anche, mossi dallo Spirito, per situazioni particolari nel mondo: per le vittime dei terremoti ad Haiti e in Giappone, per la libertà politica dei popoli del Medio Oriente, per i rifugiati in Italia e nel resto d’Europa. La preghiera nello Spirito è un atto missionario.
Il biblista britannico James Dunn ha mostrato, come sostiene il teologo britannico Kirsteen Kim, che «se la missione è intesa come missio Dei, allora andare in missione equivale a partecipare alla missione di Dio svolta dallo Spirito (Rom 8,14-17). Se questo è vero, allora il primo atto missionario è il discernimento, per scoprire il modo in cui lo Spirito si sta muovendo nel mondo, per unirsi a quel movimento». La condizione per operare un simile discernimento è il senso della contemplazione, la capacità di essere attenti, aperti, percettivi. Solo coltivando questo atteggiamento si può riconoscere l’azione dello Spirito nella propria vita e nel mondo. La contemplazione, quindi, come la preghiera, è un atto missionario.
Nei suoi numerosi scritti sulla missione come riconciliazione, R. Schreiter insiste particolarmente su due elementi del processo di riconciliazione. Prima di tutto, dice, la riconciliazione è possibile solo perché è Dio a prendere l’iniziativa, a offrire a una particolare vittima o gruppo di vittime la comprensione e il coraggio di perdonare la violenza che è stata commessa contro di loro. In secondo luogo, Schreiter mostra che la riconciliazione non ripristina lo stato di cose che c’era prima, lo status qua ante; piuttosto, trasporta sia la vittima che il reo della violenza in un luogo nuovo, una situazione nuova creata dalla grazia. Schreiter parla in termini generali di «Dio» quale agente di questa opera di riconciliazione, ma sarebbe più appropriato dire che questa è opera dello Spirito Santo, soprattutto perché la guarigione, la riconciliazione e la novità sorprendente sono sempre segni della sua azione: «Emitte Spiritum tuum, et creabuntur, et renovabis faciem terrae».
L’opera dello Spirito nella riconciliazione è stata sottolineata in particolare dal convegno della Commissione sulla missione e l’evangelizzazione, che si è svolto ad Atene nel 2005 e aveva per titolo «Vieni, Santo Spirito, guarisci e riconcilia». Al convegno parteciparono donne e uomini di tutto il mondo, con una partecipazione speciale di pentecostali e ortodossi. In un documento scritto dopo la conferenza leggiamo: «Guardiamo allo Spirito Santo, che nella Bibbia è messo in relazione con la comunione (2Cor 13,13), perché guidi noi e tutta la creazione nell’integrità e nella pienezza verso la riconciliazione con Dio e gli uni con gli altri».
Nel mondo violento di oggi la riconciliazione va cercata a vari livelli, ed è chiaramente una priorità della missione evangelizzatrice della Chiesa, perché la possibilità di riconciliarsi è davvero una buona notizia, spesso sorprendente. Lo Spirito può operare a livello individuale riconciliando mariti e mogli, o figli vittime di abusi e i loro genitori. Può anche operare a livello politico, portando la riconciliazione alle vittime di tortura o genocidio in paesi come il Sudafrica, l’Argentina o il Ruanda; o tra nazioni che si sono divise, come in passato la Germania o ancora oggi la Corea, separata tra Nord e Sud. Lo Spirito può operare anche a livello culturale, riconciliando i nativi americani nel Nord America, o gli aborigeni Maori in Nuova Zelanda. Infine, la missione può includere l’opera dello Spirito all’interno della Chiesa stessa, riconciliando le donne, che nel passato sono state sottovalutate, o le vittime di abusi sessuali in paesi come gli Stati Uniti, il Belgio e l’Irlanda.
Kirsteen Kim immagina lo Spirito all’opera nella riconciliazione come «una colomba colorata e forte». Spesso la colomba come rappresentazione dello Spirito diventa un’immagine sviante, che ricorda «il tacchino ingrassato del consumismo» o «l’aquila dell’impero». Perché la colomba sia una vera rappresentazione dello Spirito, dobbiamo riconoscere che la riconciliazione «ha luogo sotto le ali del dinamico e vigoroso Spirito di Dio, che aleggiava sulle acque per dare alla luce la creazione, e si libra in volo ancora oggi». Lo Spirito guida l’umanità nella vera lotta per la riconciliazione, che richiede forza e coraggio, e che unifica l’umanità in tutta la sua colorata varietà. La partecipazione a questa opera dello Spirito è il compito della missione oggi.
Lo Spirito Santo è il «principio agente della missione». La missione non è altro che «scoprire dove opera lo Spirito e unirsi alla sua azione». Queste due affermazioni dei vescovi di Roma e di un arcivescovo di Canterbury sono state i due princìpi che hanno operato in questo contributo, in dialogo con una terza: la missione è «una realtà unitaria, ma complessa». Nei limiti che mi sono stati assegnati, spero di aver delineato come è la missione, e come deve essere svolta nel mondo di oggi, in collaborazione con lo Spirito di Dio. Spero anche che il successivo dibattito ci aiuterà a cogliere le ricchezze a cui questo contributo ha solamente accennato.
© 2011 by Stephen Bevans
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Stephen B. Bevans, Roger P. Schroeder
Teologia per la missione oggi
Costanti nel contesto
Biblioteca di teologia contemporanea 148
Queriniana, Brescia 2010.
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